Ottobre, sprazzi di sole fra le nuvole e una spiaggia che potrebbe trovarsi ai Caraibi invece che in Grecia tanto la sabbia sembra talco.
Il vento è fortissimo, e questo è forse l’unico minuscolo elemento di disturbo al quale mi abituo velocemente.
E’ facile adattarsi ad ogni situazione quando si è circondati solo da bellezza, luce e silenzio.
Libera, è così che mi sento.
Libera dagli sguardi della gente, dalla frenesia del “devo fare”, dagli orari, dai vestiti, dal trucco.
Libera dagli orecchini, oggetti dai quali nella mia vita “reale” non mi libero praticamente mai.
Intorno il deserto. E’ talmente surreale questa assenza di persone in questo minuscolo angolo di mondo che con il passare dei minuti inizio a considerarlo un pochino mio.
La mia spiaggia.
Il mio mare.
Inevitabile quindi la piccola sensazione di fastidio che provo vedendo una figura lontana scendere la ripida scala bianca che taglia in due la collina.
Magari cambia idea, penso. Il vento è forte e non c’è tanto sole.
E invece no, non si arrende e continua nella sua discesa.
L’abbigliamento è piuttosto insolito. Il vestito bianco le svolazza intorno costringendola a tenerlo fermo con la mano destra, mentre la mano sinistra preme sul capo un cappello a falda larga che onestamente si sarebbe potuta risparmiare considerato che rischia ad ogni folata di volare via.
La seguo con lo sguardo.
La speranza che perlomeno con la spiaggia semi vuota si accomodi ad una certa distanza da me svanisce presto.
Allora inizio a pensare che si senta sola e tema qualcosa o qualcuno.
E’ sufficiente questo momento di empatia per trasformare il fastidio in un sorriso di benvenuto.
Risponde timida, reggendo tra le mani un sacchetto di lino ricamato che mi ricorda i miei lavoretti di bambina.
Non riesco ad indovinare nulla di lei e decido quindi di dedicarmi nuovamente ai miei libri e ai miei pensieri, ma qualcosa mi suggerisce di non perderla di vista.
La vedo alzarsi e andare incontro alle onde di un mare arrabbiato che non sembra propenso ad accogliere corpi.
Ma lei avanza.
“Bagnerai il vestito” vorrei gridarle, anche se non saprei in quale lingua farlo.
Intorno solo silenzio, vento e mulinelli di sabbia.
Lei continua a camminare ed io vorrei che si fermasse e forse avverte il mio muto richiamo perché si arresta con l’acqua alla vita.
E mentre inizio a pensare che prenderà freddo e che le ci vorrà troppo tempo per far asciugare il suo vestito, lei afferra il cappello con una mano scoprendo una cascata di riccioli scuri.
Fra le mani il suo sacchettino dal quale inizia ad estrarre minuscoli sassolini che, da lontano, appaiono bianchi e levigati.
Ne lascia cadere uno in acqua e si scosta di lato, con un passo così leggero che pare stia danzando.
Poi un altro e così via creando una bizzarra ed incomprensibile coreografia.
Mentre si volta verso la riva e mi sorride mi accorgo che il sacchetto è quasi vuoto e che il suo volto è più luminoso.
Come se avesse risolto un dilemma, sciolto un nodo, lasciato andare qualcosa.
Non lo saprò mai cosa l’abbia resa più leggera, ma la mia “pazza di casa” crede di sì.
Si è liberata dell’inutile che la appesantiva, lo dice il suo sorriso che è quello di chi ha fatto la cosa giusta.
Magari ciò a cui ho assistito era la celebrazione di un rito che le serviva per ricordare a sé stessa che non c’è più spazio dentro di lei per dispiacere e rabbia.
Forse la mia “pazza di casa” ha ragione.
Finalmente, e senza esitazione, ha lasciato andare.