C’era una volta in un paese non troppo lontano, durante un tempo piuttosto vicino, in un lunedì qualsiasi con il cielo color azzurro cielo, di fine gennaio, che pian piano riscaldava la pelle e scioglieva la neve ai bordi delle strade, una signora piuttosto in carne che era la regina del paese. Aveva dolori forti quel mattino, sua madre insistente l’aveva portata in ospedale perché se non ci fosse voluta andare, si sarebbe dovuto lavorare! Non c’erano vie di mezzo quel giorno, così come oggi non ci sono le mezze stagioni.
La regina, dolorante e panciuta, con i suoi trentaquattro chili di troppo, messi su per il parto (perché non si poteva trattenere e, a mezzanotte di ogni notte, doveva mangiare un uovo al tegamino, passatelli in brodo e tortelli col ragù) non si sentiva ancora pronta, non le sembrava fosse l’ora, ma si era dovuta preparare e all’ospedale era dovuta per forza andare.
Durante le prime ore passate in quella stanza bianca, con l’ostetrica che non faceva che dire: “non è dilatata abbastanza”, alla regina era venuto un gran nervoso. Aveva smesso di sentire ogni fastidio e ogni dolore e, improvvisamente, avrebbe voluto essere altrove, invece che in quello spazio chiaro, con l’ostetrica e il suo “non è dilatata abbastanza”, che l’obbligava a camminare, per sollecitare le contrazioni.
In pausa pranzo arrivarono i primi fiori ad accogliere Diletta, ma lei si trovava ancora dentro a quell’enorme pancia e di venire fuori non aveva nessuna fretta. La regina iniziava a spazientirsi, i dottori passarono dai controlli alle minacce, dicendo che oramai sarebbe stato fine turno e che presto sarebbero tornati a casa, senza vedere nascere la bambina. L’infermiera, primaria della corsia, intorno alle 18, entrò in camera veloce, avvisando che la sala d’attesa era pienissima di gente che voleva vedere la principessa e che era arrivata l’ora di darsi una mossa!!
Quando nacque Diletta gli infermieri avevano orologi fuori orario che segnavano uno le 19.30 e l’altro le 20; decisero così di scrivere 19.45 per fare una via di mezzo e dare un’ora di inizio a questa vita, che un’ora di inizio vera, non l’avrebbe mai avuta.
La principessa era bellissima, piena di capelli neri e con due occhioni così grandi che guardavano e già capivano che la regina fosse la regina e che il re fosse veramente il re.
Guardarono la figlia, i due ragazzini diventati genitori a vent’anni, che ancora non erano abbastanza adulti per capire cosa volesse dire, ma lo erano stati abbastanza per poterlo fare e, con il cuore pieno di gioia, la regina prese in braccio Diletta e le disse: “Ti ameremo così come sei bambina mia”.
In tutte le case del mondo, all’arrivo di una bambina, tutti accolgono la nuova nascitura con il soprannome di “principessa”, ma non sono tutte realmente principesse, questo ci tengo a precisare, mentre Diletta era Principessa sul serio e, come tale, per lei erano in piano tanti, svariati e innumerevoli progetti.
I genitori l’amavano, così com’era, e il regno era stretto intorno a loro nei giorni che seguirono l’arrivo dei fiocchi rosa; i quattro nonni, tutti carichi ed elettrizzati per l’arrivo della loro erede, erano febbricitanti per la gioia. La regina aveva pregato tanto perché ella fosse una bambina, anche se si sa, che per un regno, sperare nell’arrivo di un principe, come primogenito, sarebbe stato più sensato, ma la regina era certa che tra uomini e donne ci fossero differenze enormi e che solo “le palle”, che avevano in realtà soltanto le donne, sarebbero state in grado di far fronte a tutti i pericoli e le avversità dell’epoca, facendo tutto ciò che sarebbe servito, per poter far continuare la loro stirpe e per mantenere al potere il loro sangue blu!
La principessa, tanto carina e furba, divenne presto la più furba di tutta la famiglia (o almeno così alla famiglia stessa piaceva dire): a otto mesi iniziò a camminare, a nove mesi iniziò a parlare, a dieci mesi a cantare e a undici mesi finì col dichiarare, che era già dal sesto mese che aveva iniziato a pensare e a progettare.
Il re e la regina erano incredibilmente orgogliosi e fieri del loro fagottino con le guancette rosse, che presto era diventato uno splendore con la sua frangetta, le treccine e con le scarpe di vernice. L’ascoltavano esporre i suoi programmi scandendo bene le parole, che sembravano uscire dalla bocca di un’adulta e non dalla bocca senza denti, di una bambina di sei anni.
Studiava piani per le fognature, metodi nuovi di irrigazione per l’agricoltura e piani di organizzazione per la distribuzione dei viveri alla popolazione. Tutti l’amavano e la stimavano, tutti l’adoravano e la rispettavano, tutti volevano combattere per lei e le gridavano: “Lunga vita alla principessa”!
E dopo la realizzazione del primo progetto, per rendere l’acqua potabile in un paese lì vicino, messo in pratica dalla principessa, durante la primavera del suo decimo anno, il re, emozionato e ammaliato, le strinse la mano e le disse: “Ti amerò così come sei figlia mia.”
Quanto era brava questa ragazza, non faceva che rendere fieri i suoi genitori e tutto il regno; aveva idee utili e strabilianti e organizzava percorsi professionali per se e per tutti i suoi fratelli. Aveva idee anche per il futuro: voleva fare la dottoressa e mettere tra gli esami di prevenzione l’ecografia all’addome perché riteneva che tramite questa, si potessero prevenire molte più malattie e voleva specializzarsi in psichiatria per studiare la mente, che tanto l’affascinava, per porre rimedio anche a tutti i difetti che potesse sviluppare.
Quando le si chiedeva che cosa avrebbe fatto da grande, lei rispondeva che avrebbe salvato il mondo, che l’avrebbe cambiato. Aveva, ad esempio, pensato ad uno speciale piano di collaborazione tra stati: in cui aziende di costruzione appartenenti ai paesi più sviluppati, per dare lavoro a tutti i laureati presenti all’interno dei confini, avrebbero mandato questi ultimi nei paesi più arretrati, a capo di squadre di operai abitanti del posto e prontamente istruiti, per dedicarsi alla costruzione di fognature, strade, centri di accoglienza ed ospedali. I paesi meno sviluppati, avrebbero pagato con materie prime le aziende di costruzione, che, a loro volta, avrebbero trasformato in denaro contante tali materie, per pagare i rispettivi compensi agli ingegneri, agli architetti, agli idraulici, ai geometri e a tutti coloro che, a tale progetto, avrebbero partecipato. “Dove sta scritto che non si possa più usare il baratto?” diceva Diletta facendo spallucce.
Crescendo Diletta convinse praticamente tutti e perfino se stessa, di avere sempre in mano una soluzione per qualsiasi dubbio, problema o indecisione. Si erano addirittura organizzati gruppi di incontro a cui la principessa prendeva parte, dove dava consigli e spiegazioni per risolvere prontamente, con la sua mega mente, qualsiasi situazione creasse disagio all’interlocutore.
Fu nell’estate dei suoi diciassette anni che Diletta ebbe l’idea più brillante! Decise di fondare un’associazione e creare un team di collaborazione, che l’aiutasse a gestire e a mettere in pratica tutte le idee che il suo cervello continuava incessantemente a partorire. Aveva un team meraviglioso, formato da gente appartenente a ranghi diversi, con diversa istruzione, diversa età, sesso e occupazione. Tutti i cinquemila abitanti del piccolo paese, avevano partecipato alle selezioni e soltanto in quarantasei erano stati assunti! Avevano dovuto sottoporsi a test logico attitudinali, colloqui di gruppo ed individuali e persino a periodi di prova, della durata di sei mesi, direttamente in uffici che simulavano problemi e casistiche di cui, probabilmente, si sarebbero dovuti occupare.
Una volta creato il giusto team, il lavoro divenne una meraviglia.
Insieme si occupavano di tutto, dal trovare subito occupazione per i neolaureati e un nuovo inserimento per coloro che venivano invece licenziati, fino al trasferimento in altri paesi di chi dichiarava di essersi stancato o di essere disperato. Si trovavano nuovi partner per i single, creando eventi apposta per loro, a cui solo i single potessero partecipare e si affrontava insieme l’avvilimento, di coloro che erano appena stati traditi o lasciati, affiancandogli una sorta di “motivatore”, che impedisse loro di suicidarsi o di uccidere e cioè qualcuno che fosse in grado prontamente, di aprirgli gli occhi e fargli capire che infondo, non ne valesse davvero la pena, per poi inserirli gradualmente negli eventi per i single, a cui il vecchio partner non potesse partecipare.
Si cercavano nuovi metodi per lo smaltimento dei rifiuti, studiando i trasferimenti più economici per domiciliarli su Marte. Si promuovevano percorsi per coloro che venivano definiti superficialmente come dei “depressi”, che li vedeva impiegati nell’aiuto degli altri perché Diletta era completamente convinta che la miglior cura per le persone tristi, senza un identificabile motivo, fosse proprio fare volontariato e che l’aiutare quelle persone, che di motivi per essere tristi ne avevano davvero, fosse la cura più straordinaria, sana ed economica che il paese potesse offrire.
Si modificavano regolamenti e leggi per rendere illegale l’utilizzo di mezzi alimentati con il petrolio e la vendita promozionale per auto, moto, macchine agricole e camion elettrici, che non potessero assolutamente inquinare. Ma più che altro ci si dedicava alla sanità, per fare in modo che tutto filasse liscio e che per fare un controllo o una visita di qualsiasi tipo, non si dovesse aspettare per un anno le tempistiche della mutua e non si dovesse neppure sganciare il becco di un quattrino, per una visita privata!
“Ti ameremo così come sei” dicevano continuamente, dopo ogni successo, il re e la regina a Diletta.
E lei ne era tanto felice e fiera, non era “Dio in terra” per carità, era soltanto una principessa, ma il suo parere e la sua opinione valevano per alcuni, più dell’opinione e del parere di qualsiasi altro! Lei pensava di avere la soluzione per tutto e forse era proprio così!
Diletta doveva tenere a mente tantissime cose e doveva ricordarsi di ricordare a tutti di fare il proprio dovere: teneva due agende, una elettronica (di quelle più sofisticate) e una cartacea, perché, della tecnologia, del tutto non si fidava. Si fidava soltanto del suo cervello (il suo computer personale) che non si fermava mai e continuava sempre a pensare, ragionare e lavorare. Lei lo studiava perché era affascinata dai cervelli e dalla memoria in generale e più che altro continuava a ripetersi piano in testa, insieme a tutto quello che non doveva dimenticare: frasi fatte, citazioni rilevanti, consigli personali che dava a se stessa, consigli pronti che doveva suggerire ad altri, ovvietà su se stessa, sulla natura e sul mondo, perle di saggezza dette da altri, parole lette sui giornali o nei sottotitoli alla televisione ecc ecc, così via.. per distrarsi e non restare sempre ferma sul lavoro con la testa!
“Se fossimo tutti uguali, avremmo tutti le case uguali / La moda passa, lo stile resta / Far modificare i “911” con i “118” in ogni doppiaggio di film e telefilm, per evitare fraintendimenti/ Le persone odiose trovano sempre eccellenti scuse per esserlo” ad esempio..
E mentre i lavori continuavano e il cervello di Diletta cresceva, la principessa aveva compiuto ventidue anni ed era diventata una donna meravigliosa!
Non era soltanto intelligente e furba più di qualunque altro presente nel mondo, o più che altro l’unica ancora vivente in quell’epoca, ma era una donna di cuore, bellissima, fantastica che aveva tutto quello che si potesse desiderare.
FINE PRIMA PARTE